Se il riarmo determina la normativa europea in materia di armamenti
Se il riarmo determina la normativa europea in materia di armamenti
di Alice Franchini
La strategia di riarmo annunciata dalla Commissione Europea a marzo 2025 influenzerà le politiche pubbliche dei Paesi membri per anni a venire, e non solo per quanto riguarda l’incremento della spesa bellica. Fuori dal radar del dibattito pubblico, la corsa europea al riarmo sta già pesando sui processi decisionali comunitari in materia di armamenti.
Con la Decisione Comune (CFSP) 2025/779 del 14 aprile 2025, il Consiglio UE ha formalizzato la conclusione dell’ultimo ciclo di revisione della Posizione Comune 2008/944/PESC, il principale provvedimento normativo che regola la produzione, l’importazione, l’esportazione e il transito di materiali d’armamento a livello comunitario.
L’esito della revisione è frutto di una complessa architettura di compromessi tra volontà politiche e interessi strategici divergenti.
Guardando alle principali modifiche al testo approvato dal Consiglio, positivo è sicuramente il recepimento di alcuni elementi già presenti nell’Arms Trade Treaty (del quale tutti i Paesi membri sono firmatari) che specificano i profili di rischio da valutare nell’autorizzazione di esportazioni e trasferimenti d’arma verso Paesi terzi.
Ne è esempio il Criterio No.2 dell’Art.2, che tra i profili di rischio ha introdotto le violazioni del diritto internazionale umanitario e gravi atti di violenza basati sul genere (GBV), nonché ampliato il concetto di repressione interna includendo il ruolo di facilitazione che le armi svolgono nell’esercizio della repressione.
Come le organizzazioni per il disarmo segnalano da anni, queste formulazioni, già contenute nell’ATT, non figurano ad ora tra i criteri di autorizzazione o diniego delle licenze di esportazione ai produttori d’arma, creando un significativo divario tra i due provvedimenti.
Questo sviluppo positivo va tuttavia contestualizzato rispetto all'incidenza di variabili quali il carattere e l’efficacia della governance nei Paesi di destinazione degli armamenti, e la presenza di forme specifiche di corruzione lungo le filiere di produzione, distribuzione e utilizzo delle armi, per valutarne la portata effettivo.
Il tema della governance non è stato adeguatamente affrontato dal processo di revisione, e questo è emblematico del fatto che l’Unione abbia scelto di non imparare dall’errore di aver armato per decenni regimi friabili che non solo non hanno garantito stabilità politica ai propri Paesi, ma hanno consolidato il potere di élite cleptocratiche e spesso disposte all’uso arbitrario della forza per gestire il dissenso interno quanto le controversie regionali. Anche la presenza di fenomeni di corruzione, particolarmente determinanti per i rischi di diversione, proliferazione, e criminalità organizzata, non trova una disciplina adeguata nella nuova Posizione Comune. Se da un lato la corruzione e la fragilità dello Stato ricevente sono citate tra i profili di rischio da considerare (soprattutto ex Criteri No.2 e No.5) all’interno della User Guide che correda il testo normativo, è lecito tuttavia domandarsi perché due fattori di rischio così significativi siano stati discussi solo all’interno di un’appendice integrativa.
Un’ulteriore questione aperta è quella dell’introduzione della GBV tra i profili di rischio, che rischia di restare un provvedimento su carta in mancanza di una definizione chiara e univoca della stessa, una sfida che è stata affrontata per mezzo di rimandi al testo dell’ATT. Questa lacuna normativa rischia di minare i progressi fatti, perché se da una lato la GBV è per sua natura endemica, elusiva, diversamente concettualizzata e sanzionata in contesti diversi, la GBV nel contesto dei conflitti armati diventa spesso un’arma di guerra o uno strumento di controllo sociale.
All’edizione 2025 del Forum COARM-NGOs, un portavoce del gruppo di lavoro ha specificato che la definizione sarà sviluppata “successivamente”, ma questo è problematico perché, come sosteneva Cynthia Enloe in riferimento alla derubricazione della GBV nei conflitti, “dopo è un tempo patriarcale”.
Se queste integrazioni si possono considerare ambiguamente positive, la revisione della Posizione Comune ha prodotto anche deroghe ed emendamenti molto preoccupanti, sui quali hanno sicuramente pesato le logiche di riarmo e sostegno militare a Paesi alleati.
Il Criterio No.3 dell’Art.2 ad esempio è stato emendato con l’introduzione di una deroga al divieto di esportare armi a Paesi terzi coinvolti in conflitti armati affinché tale divieto “non pregiudichi l’esercizio legittimo e conforme alla legge della difesa e della sicurezza” per il Paese di destinazione. Se questa deroga, che formalmente non fa venire meno gli obblighi in materia di diritti umani sanciti dai Criteri No.2 e 4, sembrerebbe pensata per facilitare il sostegno a Paesi vittime di aggressioni armate, come l’Ucraina, la crescente erosione del consenso internazionale alla necessità del disarmo e l’arbitrarietà nell'esercizio della “difesa” cui stiamo assistendo rischiano di trovare in essa una porta girevole che permetterà all’industria bellica europea di continuare ad armare regimi oppressivi e genocidari capaci di presentarsi come legittimi difensori dei propri popoli, spesso solo perché alleati di UE e NATO, come il caso di Israele esemplifica.
Un ulteriore sviluppo problematico concerne la regolamentazione della produzione congiunta e tramite licenza di proprietà intellettuale (cosiddetta “offshoring”) di armamenti che coinvolga Paesi membri o Paesi terzi. Anche in questo caso non siamo davanti ad un fenomeno nuovo, bensì- come documentato da EgyptWide- un trend di mercato presente da anni e in crescita proprio grazie alla mancanza di un’adeguata regolamentazione, che apre a forti rischi di proliferazione e abuso del materiale così prodotto.
La corsa al riarmo e il deterioramento dei rapporti con gli Stati Uniti hanno generato una spinta storica verso l’incremento della produzione bellica soprattutto per mezzo di accordi di produzione, sia tra Paesi membri che con Paesi terzi. La revisione della Posizione Comune ha cercato di integrare questo cambiamento nella nuova disciplina, ma se da un lato l’utilizzo di espressioni quali “facilitare l’esportazione di materiale bellico (co)prodotto nell’UE” (Capitolo 6 della User Guide) evidenzia un chiaro sbilanciamento a favore degli interessi dell’industria bellica, la regolamentazione lacunosa dei processi decisionali e di controllo sulle esportazioni lascia intendere che il riarmo europeo sarà inevitabilmente pilotato dai grandi produttori d’arma e dai Paesi capaci di imporsi sui partner meno influenti.
Ancora una volta si è scelto di non imparare dalle lezioni del passato, tra cui quella del programma NATO F35 che ha dimostrato come il multilateralismo nella produzione bellica significhi meno controllo su produzione ed esportazione per i singoli Paesi, e i criteri di controllo basati su soglie percentuali di produzione dei componenti non riflettano il reale potenziale di applicazione dei materiali prodotti.
Forse il più grave fallimento del processo di revisione è stato l’incapacità di produrre una maggiore armonizzazione nei meccanismi e nei criteri di esportazione e end-use control tra i Paesi membri. Nel contesto dell’attuale piano di riarmo, la mancanza di uniformità e trasparenza significa che nella corsa agli armamenti trionferanno i produttori più influenti e i Paesi esportatori più spregiudicati a discapito dei princìpi di prevenzione, accountability, e rispetto degli obblighi internazionali.