Non dimenticare il pericolo nucleare,

non mettere a tacere il tabù nucleare

Relazione di Fabrizio Battistelli all’Incontro Internazionale

“Osare la Pace”

Sant’Egidio, Roma, 26-28 ottobre 2025

 

Non si finisce mai di imparare dal Premio Nobel per la pace. O per meglio dire dal Comitato norvegese che lo assegna, innanzitutto per le sue scelte: sia quelle che fa, sia per quelle che riesce a evitare.

Se nel 2025 ci ha lasciato sino alla fine con il fiato sospeso di fronte alla sorprendente auto-candidatura di Donald Trump, anche la designazione del 2024 aveva destato qualche stupore. Non certo per la natura dei premiati – assolutamente fondata e condivisibile – quanto per i tempi. Come ben sappiamo, l’anno scorso il Nobel per la pace è stato assegnato alla Nihon Hidankyo, l’associazione degli Hibakusha. Il Comitato ha spiegato che l’ottantesimo anniversario del tragico esordio della bomba atomica sarebbe caduto nel 2025, ma l’intenzione era rilanciare per tempo la riflessione sulla minaccia dell’arma nucleare nel mondo contemporaneo. 

Non c’è bisogno di sottolineare la gravità della situazione odierna, che vede in guerra due Paesi dotati di armi nucleari. Uno, la Russia, possiede il maggior numero di testate (5.500) ed è anche all’avanguardia in alcune prestazioni dei vettori (velocità ipersonica, alimentazione da energia nucleare). Dato spesso trascurato, per non dire occultato, nel discorso pubblico, l’altro Stato belligerante e (arbitrariamente) nucleare è Israele con un numero di testate stimato tra le 90 e le 200.

Tra i due casi, il rischio che la situazione possa degenerare in un impiego – intenzionale o inintenzionale – dell’arma nucleare può ritenersi remoto nel caso israeliano. Anche se non sono mancate minacce da parte di falchi quali Amihai Eliyahu, ministro del governo Netanyahu, secondo il quale: “una delle opzioni per Israele è quella di sganciare una bomba nucleare sulla Striscia”.

Piuttosto differente il caso riguardante l’invasione russa dell’Ucraina dove un’irruzione, o anche uno “scivolamento”, nell’impiego nucleare è tutt’altro che impossibile, un evento che avrebbe conseguenze devastanti sul piano politico e strategico.

È stupefacente la capacità dei governi di “risparmiare” all’opinione pubblica il giustificato allarme che comporta questa eventualità. Nella migliore tradizione strategica, fin dall’inizio della “Operazione militare speciale” le policy nel crisis management delle due controparti sono state antitetiche. In un crescendo a partire dalle iniziali minacce a mezza voce e alle modifiche via via più intimidatorie nella dottrina strategica russa, Putin ha fatto seguire un’escalation di provocazioni, espresse direttamente da lui o affidate ai suoi collaboratori ovvero (come è accaduto anche di recente) attraverso le esercitazioni militari, le parate, le esibizioni di nuovi sistemi d’arma sempre più sofisticati e distruttivi. Viceversa, la policy occidentale, in particolare americana, è stata quella di sottovalutare, ridurre, banalizzare le minacce russe, riconducendole alla routine della “normale” confrontazione Est-Ovest.

Ad esempio, è degna di nota la cortina di silenzio stesa sul Piano di pace presentato dalla Cina nel febbraio del 2023. Quella che più che altro era una dichiarazione d’intenti, conteneva una novità interessante: la proposta che le potenze nucleari rinunciassero non soltanto al “first use” ma anche alla minaccia dell’uso del nucleare. Si trattava di una proposta palesemente sfavorevole a Mosca, di cui censurava uno strumento di pressione. Ignorarla da parte occidentale ha una sola spiegazione: la consegna del silenzio imposta dai governi USA e UE sulla questione nucleare, in quanto capace di suscitare l’avversione dell’ampia maggioranza dell’opinione pubblica. Insomma, il tabù nucleare.

Il Premio Nobel per la pace 2024 assegnato alle vittime giapponesi della bomba atomica rappresenta – secondo quanto ha affermato Jorgen W. Frydnes, presidente del Comitato norvegese per il Nobel – un fondamentale sforzo per proteggere il tabù nucleare, oggi “sotto pressione”. Onorare gli Hibakusha e coloro che ne mantengono viva la memoria segnala una crescente consapevolezza e resistenza al vero e proprio assalto oggi in corso, volto a svuotare e smantellare il tabù nucleare. Senza di esso, le superpotenze nucleari sarebbero libere di sperimentare forme sempre più cinetiche e flessibili di deterrenza nucleare. Come definito dalla politologa Nina Tannenwald, il tabù nucleare riflette una diffusa repulsione emotiva e morale verso le armi nucleari e un’inibizione condivisa riguardo al loro uso. Anche un pensatore “realista” come Thomas Schelling (Premio Nobel per l’economia 2007) ne riconobbe il ruolo, deterrente (in senso pacifista) come “lo straordinario lascito di Hiroshima”.

Si calcola che ad oggi siano state fabbricate e schierate negli arsenali circa 130.000 testate Nucleari, di esse, ne sono state usate solo 2. Dunque, se il tabù nucleare ha funzionato non come una norma giuridica (la sua proibizione è prevista dal Trattato TPNW votato nel 2017 da 122 Stati dell’ONU) bensì come un’istituzione culturale e sociale profondamente radicata e condivisa. Esso ha plasmato la coscienza pubblica globale a partire dai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki, influenzando anche gli atteggiamenti delle élite e costringendo i decisori politici a bilanciare gli interessi strategici con il rifiuto popolare della guerra nucleare. Negli stessi Stati Uniti, mentre alcuni leader lo considerarono fin dall’inizio un vincolo che limitava la possibilità di sfruttare pienamente l’arsenale atomico e nucleare americano, altri leader interiorizzarono la repulsione morale anche loro.

Una prova della natura normativa del tabù è fornita da concreti esempi storici. Non solo gli Stati Uniti non usarono l’arma nucleare in Vietnam negli anni ’60 o in Afghanistan negli anni ‘80 (quando avrebbero potuto temere la reazione di potenze nucleari come l’URSS o la Cina), ma non la usarono nemmeno in Corea nel 1951, quando Mosca possedeva la bomba atomica ma non disponeva ancora della tecnologia per renderla operativa.

Durante la guerra fredda, negli Stati Uniti emersero dottrine come quella della “massive retaliation”, intesa a scoraggiare la superiorità convenzionale sovietica con la minaccia di una risposta nucleare totale. Tuttavia, la credibilità di questa strategia vacillò a causa dei suoi presupposti scarsamente verosimili, come il sacrificio di città americane per difendere gli alleati europei. Fece quindi la sua comparsa la dottrina della flexible response, resa possibile dallo sviluppo delle armi nucleari tattiche (mini-nukes). Consentendo potenziali attacchi preventivi sul campo di battaglia, esse abbassarono la soglia dell’uso nucleare ed erosero la linea di confine un tempo netta tra guerra convenzionale e nucleare: un passo verso il superamento del tabù nucleare.

Nonostante gli sforzi per normalizzare le armi nucleari sul piano dottrinale, il tabù nucleare è sopravvissuto per decenni, condiviso dalla maggioranza dell’opinione pubblica. Negli ultimi anni, tuttavia, il tabù si è indebolito. L’erosione degli accordi sul controllo degli armamenti e il rafforzamento delle leadership nazionaliste stanno contribuendo a questo mutamento. I governi della NATO inquadrano sempre più spesso il riarmo e la deterrenza nucleare come risposte necessarie a minacce esterne, spingendo per un aumento della spesa militare (ad esempio, l’imposizione di Trump di portare i bilanci della difesa europei dal 2% al 5% del PIL).

L’opinione pubblica europea, in particolare in Italia, rimane in gran parte riluttante ad accettare tale militarizzazione. Tuttavia, l’invasione russa dell’Ucraina condiziona gli atteggiamenti, con cittadini tedeschi e olandesi che mostrano una crescente accettazione delle strategie di deterrenza nucleare della NATO, incluso il nuclear sharing (il dispiegamento di testate americane nei loro territori). I vuoti del discorso pubblico non consentono di valutare che la condivisione della deterrenza USA “allargata” priva Germania, Paesi Bassi, Belgio e Italia dell’auto-limitazione (imposta dal TNP) del no first use da parte di un possibile nemico nucleare. Quanto ai cittadini degli Stati dotati di armi nucleari, i sondaggi rivelano un’ambiguità crescente. Mentre una certa riluttanza si registra in Cina e, in misura minore, in Russia, le opinioni pubbliche dei Paesi occidentali nucleari (soprattutto Regno Unito, Stati Uniti, Francia, Israele) appaiono più possibiliste circa l’ipotesi di un uso dell’arma nucleare, in particolare in scenari di ritorsione.

Così il tabù nucleare, un tempo predominante, si sta indebolendo, per due ragioni la prima è strategica e legata alle pressioni geopolitiche e la seconda è culturale, dovuta alla secolarizzazione della memoria collettiva. L’affievolirsi del ricordo delle atrocità atomiche della Seconda guerra mondiale, unito alle paure e ai calcoli strategici contemporanei, rischia di normalizzare ciò che un tempo era impensabile.

Restituire alle armi nucleari il loro status di minaccia estrema per la sopravvivenza dell’umanità e promuovere negoziati per limitarle è il primo passo per osare la pace.