Meglio della Befana, quanto accaduto il 7 gennaio 2015 ha “spazzato” lo spirito delle festività natalizie, lasciando il posto a sentimenti collettivi diametralmente opposti: tristezza, paura e rabbia.

Quel giorno due uomini franco-algerini, mascherati e armati di kalašnikov, hanno compiuto una strage nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo. Braccati dalla polizia, sono stati uccisi durante un conflitto a fuoco in una tipografia fuori Parigi, mentre un loro complice, dopo aver ucciso una poliziotta, assassinava altri quattro ostaggi all'interno di un supermarket. Anche, quest’ultimo, poi, ha perso la vita durante l’irruzione delle forze speciali francesi.

Si tratta dell’attentato più feroce compiuto in Francia dopo quello del 1961, ai tempi della guerra di Algeria. Il bilancio finale è di diciassette morti, oltre agli attentatori, e una dozzina di feriti.

Da tutta Europa, giustamente, si è levato un coro di condanna e di solidarietà al grido “Io sono Charlie”, che esalta il coraggio del giornale satirico e lo eleva a vessillo delle libertà democratiche. All’inverso, non è mancato chi, seppur senza giustificare la violenza, ha criticato le sue modalità di espressione affermando la necessità di rispettare il credo altrui. “Io non sono Charlie” è lo slogan dei secondi. Sia dagli uni sia dagli altri, l’attentato è stato interpretato come un attacco alla libertà di espressione occidentale, un monito a rispettare la religione musulmana e la figura del Profeta.

Secondo l’immaginario collettivo, dunque, Charlie Hebdo è stato la causa scatenante dell’attentato.

Tuttavia, quando si parla di terrorismo in generale, e di terrorismo di matrice islamica in particolare, è necessario riflettere approfonditamente e porsi una serie di domande accurate: nei militanti la volontà di attaccare nasce da motivazioni complesse o dalla semplice indignazione?

E ancora: è davvero plausibile pensare che un individuo razionale, a prescindere dalla sua religione o estrazione politico-culturale, possa utilizzare la forza armata per porre fine a un evento lesivo della sua dignità, senza prima accennare a una protesta pacifica? Possiamo davvero pensare che le organizzazioni terroristiche agiscano in base alla loro suscettibilità?

Di sicuro Charlie Hebdo con le sue vignette dissacranti al limite della tolleranza religiosa ha fornito su un vassoio d’argento il pretesto per l’attacco, ma non ne costituisce la genesi. Questo per un semplice motivo: le organizzazioni terroristiche agiscono secondo logiche razionali. I maggiori esperti in  materia  definiscono il terrorismo non come un’ideologia, che reagisce di fronte alle provocazioni, bensì come una tecnica di conflitto utilizzata da gruppi organizzati con un nome, una storia, una leadership, una struttura, un metodo e uno scopo ben definito e per lo più legato a rivendicazioni territoriali.

Al contrario, pensare che i fatti di Parigi siano il risultato di qualche tratto di matita, per quanto dissacrante, equivale a considerarli l’opera improvvisata e solitaria di alcuni fanatici squilibrati. Ma non possiamo permetterci questa ingenuità, perché altrimenti non avrebbe senso parlare di terrorismo, in quanto mancherebbe un suo elemento costitutivo (ossia l’esistenza di un gruppo organizzato).

La ricostruzione della fedina penale degli attentatori (già coinvolti in altri episodi di terrorismo) e dei loro spostamenti tra Europa e Medio Oriente dimostrerebbe un ruolo e una intenzione ben definiti: quello di soggetti addestrati disposti ad effettuare un attentato con il supporto logistico ed economico dei movimenti integralisti islamici. Lo confermerebbero anche le dichiarazioni di Al Qaeda nello Yemen (Aqpa). Perciò, con tutta probabilità, avremmo assistito in ogni caso ad episodi di violenza, magari altrove, e la storia non sarebbe mutata. Certo non potremo mai saperlo con assoluta certezza, ma è un’eventualità da tenere in considerazione.

Tutto ciò, però, sembra essere ignorato dall’opinione pubblica e dalla classe politica occidentale, concentrate piuttosto, oltre che sulla sacrosanta condanna dei fatti, sulla rivendicazione della propria libertà di espressione e del proprio diritto di blasfemia. Quest’ultimo sforzo, però, nel caso specifico appare piuttosto superfluo. Basti immaginare che se i terroristi avessero colpito un istituto religioso, oggi si rivendicherebbe indifferentemente la libertà di culto.

E’ necessario rendersi conto che le cellule terroristiche dislocate nei territori occidentali agiscono certamente con discrezionalità e autonomia, scegliendo quasi sempre un bersaglio simbolico (i fratelli Kouachi volevano colpire proprio Charlie Hebdo “per vendicare Maometto”), ma anche con una certa casualità, così da rendersi imprevedibili alle forze di sicurezza. Inoltre, per coloro che muovono le fila (i vertici delle organizzazioni terroristiche) non è importante questo o quell’obiettivo. Quello che conta veramente è il risultato finale: causare terrore. Il fine non il mezzo.

Aggredendoci (come nel caso del settimanale satirico), non vogliono attaccare particolari diritti o le libertà dei paesi democratici, men che meno la libertà di espressione, ma destabilizzare l’occidente, svegliarlo dal suo torpore, esaltarne le ipocrisie, richiamare l’attenzione su un mondo allo sfascio in cui non tutte le persone godono degli stessi diritti, evidenziare le vulnerabilità di una società che si crede superiore. In sostanza essi vogliono sovvertire il sistema.

Non ammetterlo significa ignorare il problema. Banalmente, è come dire che la strage alla stazione di Bologna sia stata voluta per fermare la circolazione dei treni e che sia stato necessario riaffermare il proprio diritto di viaggiare su rotaie.

In sintesi, lo spazio dato nel dibattito pubblico alla libertà di espressione è sproporzionato rispetto all’entità del problema, per due semplici motivi: a) se anche Charlie Hebdo smettesse di pubblicare le vignette della discordia, gli attentati di certo non cesserebbero; b) l’allerta sugli attentati è elevata non solo presso le redazioni giornalistiche, ma ovunque.

La reazione occidentale dimostra, ancora una volta, tutta la sua ipocrisia e si presta totalmente al gioco dei terroristi. Non si possono assolutamente semplificare le ragioni degli attentati di Parigi come una conseguenza dell’indignazione. Non si possono trattare i terroristi come esseri irrazionali e superficiali.

Non ha alcun senso riflettere su come i fumettisti francesi avrebbero dovuto e dovrebbero fare satira (cosa che tra l’altro non interessa a nessuno, nemmeno ai terroristi stessi) e serve solo a fomentare proteste inutili che possono degenerare nella violenza, così come sta accadendo in Niger, dove manifestazioni e saccheggi stanno devastando il Paese, lasciandosi alle spalle decine di morti.

Piuttosto bisognerebbe ampliare lo sguardo oltre il nostro confine autoreferenziale, analizzando le cause e le dinamiche reali del terrorismo, poiché la nostra libertà di espressione non ha nulla a che fare con tutto questo.

Dopo il cordoglio e la condanna, è il momento di spendere le energie per capire i motivi che spingono una persona a sposare con le armi la causa del jihad, che risultato vuole raggiungere, da quale contesto proviene, come viene addestrato e indottrinato, come viene strumentalizzata la religione, chi finanzia i gruppi terroristici e per quali motivi. Questo metodo è certamente più faticoso perché si oppone ai nostri interessi economici e ci pone davanti enormi responsabilità, ma è l’unico adottabile per individuare soluzioni idonee a prevenire e contrastare questa piaga.

Da un lato, infatti, dobbiamo considerare il terrorismo anche come il risultato delle politiche occidentali: traffico di armi irresponsabile, confini tracciati a tavolino dalle potenze coloniali del secolo scorso, sfruttamento delle risorse del sottosuolo, accesso limitato alle risorse idriche e alimentari, povertà, diritti umani negati (in primis quello all’autodeterminazione dei popoli), emarginazione sociale e disoccupazione sono solo alcune delle cause.

Poniamoci un’ultima domanda: senza in alcun modo voler giustificare la violenza ed escludendo i fanatici, l’atto terroristico in sé potrebbe costituire, l’ultima azione di una persona esasperata e facilmente condizionabile o ricattabile proprio a causa di questi problemi? In caso di risposta affermativa, il fenomeno non farà che aumentare senza un cambio di rotta radicale in Occidente prima che altrove.

Dall’altro, di fronte all’atto terroristico dobbiamo reagire rifiutando di farci terrorizzare, innanzitutto attraverso il rispetto della legalità, della Costituzione e dei trattati internazionali. Non servono atti di forza eclatanti, né tecniche oscure di sorveglianza della cittadinanza che reprimono le libertà civili (v. Patriot Act). Siamo di fronte ad un crimine e non ad un atto di guerra. L’esperienza dell’Afghanistan, ha insegnato tanto da questo punto di vista.

Ma più di ogni altra cosa, dobbiamo agire con la stessa fredda razionalità con la quale le organizzazioni terroristiche agiscono e che rifiutiamo di riconoscergli.

 

Autore: Emanuele Greco

Fonte: www.geopolitica.info